Il Libro

PRESENTAZIONE di Daniele Cunial

Non basta essere dei semplici amanti della musica, dei musicofili per raccogliere centinaia di canti, come quelli contenuti in questo testo; né basta la pazienza e la meticolosità degli studiosi.
Occorre un autentico amore per l’arte popolare, quell’arte che non ha “autore”, ma “autori” – anonimi per lo più -; amore per il proprio ambiente e per le proprie radici, per quel mondo tradizionale che ha caratterizzato le nostre terre fino a qualche decennio fa.
Ora non più: ora la terra non è religiosamente coltivata, il fabbro non batte più ritmicamente il martello sul ferro, né il fornaciaio modella a mano coppi e mattoni.Il libro Canti del Grappa

No, i nostri figli studiano fino ai 18-20 e più anni; gli anziani si godono – molto spesso soli – la loro pensione; fabbriche e fabbrichette assorbono sempre più i terreni un tempo coltivati; la manodopera locale è insufficiente e viene via via sostituita dagli extracomunitari.
E i mass-media mandano messaggi di una civiltà molto diversa, che non è più quella che si è venuta lentamente evolvendo nei secoli su un “humus” contadino di grande ignoranza, di scarsi contatti, di diffusa miseria.
Eppure su quel terreno sono nate o sono arrivate e hanno attecchito le “cante” che si propongono in questo testo.

Tante altre sono morte, sono state disperse o sono passate senza lasciare traccia; alcune magari trapiantate altrove, dove tanti dei nostri in un tempo lontano o più recente hanno cercato lavoro o hanno costruito il loro focolare: le Americhe, l’Australia, i paesi europei.
Bisogna amare questa nostra terra, questa nostra vita, queste nostre radici per portare a termine una ricerca come questa, frutto di una passione che ci collega con i padri e con i padri dei padri, mantenendo vivo e riproponendo un patrimonio, il quale – proprio perché popolare – non è quasi mai scritto o registrato e rischia perciò di scomparire con la morte degli anziani che lo conservano.
E molti se ne sono andati, da quando si è cominciato a raccogliere – prima per iscritto e poi con il registratore – il patrimonio orale di Possagno e della pedemontana del Grappa : e la Beneta e Bepi e Giulio e i China e tanti altri riportati come informatori.
Riuniti attorno a un tavolo, davanti a un bicchiere in un’osteria o in una casa rustica a ripescare nella memoria i canti di gioventù, quelli imparati nelle riunioni familiari o nelle feste del borgo natio, sentiti e risentiti, oppure appresi allontanandosi dall’orticello di casa, andando per il mondo a lavorare o a fare il militare; non certo per fare del turismo, ché il massimo del turismo era andare ai filò e alle sagre o spingersi al mercato dei paesi vicini o a qualche santuario.
Sicché era in genere il giovane, il maschio a portare a casa le canzoni e le donne le apprendevano e le conservavano; né però questo deve essere considerato uno schema fisso, se si pensa alle tante ragazze che guadagnavano il pane a se stesse e alla famiglia, andando a servire anche in città lontane.
E passando di bocca in bocca, di sagra in sagra, di filò in filò le canzoni si modificavano nel ritmo e nelle parole: si aggiungeva, si toglieva e si contaminava, sicché di certune si conservano varie versioni, mentre altre risultano la somma e la fusione di più pezzi precedenti.

Talvolta- solo talvolta- si trovano canzoni nate in loco, che si riconoscono come tali per certi accenni a situazioni specifiche o per la parlata ben caratterizzata, con musica originale o, molto più spesso, adattata.
La passione per il canto – canta che ti passa – venne canalizzata dalla Chiesa ed ecco, col tempo, i cori parrocchiali – chi canta prega due volte – , di cui alcuni molto antichi come quello di Possagno che fa risalire la sua fondazione ufficiale a un documento del 1550, con tanto di statuto e di obblighi e diritti per gli iscritti; il formarsi del gruppo de “I Posagnòt” dal coro del tempio è la riprova – se mai fosse necessario – della persistenza del legame fra la Chiesa e la cultura popolare.
Ed è la passione per la musica popolare, ma anche per tutto quello che vi è collegato – ballo, parlata, abbigliamento – che tiene unito il gruppo e che rende vivi eseguendoli i canti raccolti; ché altrimenti se ne starebbero dentro un libro su uno scafale di biblioteca a documentare un passato che non c’è più.
Così il gruppo, rendendo vivo il passato, lo attualizza e ne rende testimonianza, sicché ne è il ponte, il tramite nella convinzione che la pianta vive e si sviluppa se ha buone radici, che noi viviamo nel presente proiettati verso il futuro, ma che conteniamo il nostro passato; e non ce ne vergogniamo, anzi ne facciamo un vanto, certi che quanto più sono forti le nostre identità e la volontà di preservarle, tanto più siamo noi stessi.
Questo non ci impedisce di incontrare altre culture e di apprezzarle e di goderne, come quando nelle tournées in Italia o all’estero incontriamo gruppi analoghi al nostro; stentiamo a capirci e a farci capire con la nostra modesta conoscenza delle lingue straniere, ma apprezziamo e ci sentiamo apprezzati attraverso la riproposta della cultura popolare tradizionale.
E i nostri figli, ad accompagnare fin da piccoli i genitori alle prove e alle uscite del gruppo, imparano i canti, fanno i primi passi della danza, indossano il costume tradizionale, sentono il dialetto arcaico delle scenette che fanno parte dello spettacolo de “I Posagnòt”; entrano così nell’atmosfera, nella speranza che la cultura ufficiale che ricevono a scuola o attraverso i mass-media non vanifichi del tutto quanto hanno appreso di quel mondo tradizionale da cui le loro famiglie provengono.
Perché è destino – purtroppo – delle culture particolari, minoritarie, popolari, l’essere affossate per la preponderanza – e anche per la maggior utilità pratica – da quelle ufficiali, ad opera proprio delle stesse popolazioni che ne sono depositarie ed ogni anziano che muore porta con se, oltre al proprio vissuto, anche una parte di quel mondo in cui era inserito.
Si capisce allora l’importanza di registrare prima di tutto e poi di trascrivere, riproporre e conservare quanto ci resta ancora vivo del passato e dell’arte popolare in tutte le sue espressioni.
L’augurio è che anche le istituzioni, la Regione Veneto in primis, abbiano l’occhio sempre attento a questi aspetti della cultura e all’opera preziosa di tanti ricercatori locali, in modo che non restino isolati e senza sostegno (anche economico, perché no?).

INTRODUZIONE di Vardanega Gabriele

Lo stimolo per questa ricerca mi è venuto dal resoconto che mi fece mia madre di una gara canora combattutasi tra mio nonno Basilio Busnardo ( originario da Casoni di Mussolente) e Silvio Cunial dei Carli di Possagno; sarebbe risultato vincitore chi fosse riuscito a cantare, di fila senza fermarsi , il maggior numero di motivi musicali.
Vinse la singolar tenzone mio nonno con un repertorio di trecento canti.
L’area della ricerca interessa la pedemontana del Grappa, con qualche occasionale allargamento verso la pianura. I comuni più studiati sono Possagno, Cavaso, Castelcucco, Paderno e Crespano.
Alla fine degli anni sessanta abbiamo cominciato a raccogliere canti dalla viva voce degli informatori, senza l’uso di un registratore, ma nel 1982-83 con la nascita del gruppo folcloristico “I Posagnot” la ricerca ha avuto un notevole impulso. A quell’epoca sono stati intervistati quasi a tappeto tutti gli anziani che davano qualche segno di conoscere o amare il canto, sia a Possagno che nei dintorni. Ciò nonostante qualche buon informatore è sfuggito a questa prima retata ed è venuto alla ribalta solo ultimamente, a dimostrazione che il lavoro del ricercatore non è mai finito.

Molti dei primi informatori ormai non ci sono più, ma per lo meno ci restano i loro canti quale preziosissimo ricordo. Quasi nessuno di quanti abbiamo intervistato sapeva leggere la musica e pochi avevano cantato nei cori parrocchiali; le loro conoscenze derivavano per lo più dalla tradizione orale del nonno, dello zio, del padre o dalle esperienze di guerra o di naia.
Le donne hanno avuto occasione di imparare nuove canzoni durante i periodi di servizio presso qualche casa signorile, svolto a volte in luoghi anche molto lontani dal paese.
Interessante è la testimonianza dei “Signor” di Castelcucco i quali al sabato si recavano al mercato di Asolo e dopo aver ascoltato le canzoni dei cantastorie, se non riuscivano ad impararle subito a memoria, comperavano i fogli col testo dei canti ( che per questo sono dette “canzoni da foglio volante”), e una volta a casa le cantavano in coro aggiungendovi la seconda voce in falsetto o a volte il basso tonale.
Altra testimonianza interessante è quella di Pastega Pierina “Dée Bète”, la quale udita una canzone anche una sola volta riusciva a impararla e a memorizzarla per tutta la vita, fino all’attuale età di 93 anni. (miracoli che avvengono quando si usa il cervello e non la carta o i dischetti ). La sua voce, poi, era così potente e penetrante che, quando era in montagna per la fienagione, il suo canto si udiva anche a chilometri di distanza, (da Bocca delle Forca 1500 m. fino giù alle casere “Fire” 700 m.).

Ho voluto integrare questa raccolta fatta direttamente tra la gente della pedemontana, con alcuni dei canti raccolti dal maestro Sante Zanon negli anni trenta e pubblicati nel 1938 col titolo “Cento canzoni popolari della marca trevisana”, anzitutto perché l’area di riferimento è quasi la stessa,(1) e poi perché penso sia interessante confrontare a cinquant’anni di distanza cosa è cambiato e cosa è rimasto della musica tramandata oralmente.
Per quanto riguarda la scrittura musicale, ho cercato di privilegiare la lettura ritmica del motivo piuttosto che l’assegnazione delle sillabe alle note che nel canto popolare solitamente non presenta problemi di interpretazione.

Trovare informazioni sul canto popolare non ha presentato grosse difficoltà, più problematica è stata invece la ricerca sul ballo e l’uso di strumenti musicali.
E’ vero che il ballo veniva scoraggiato dai preti come occasione di peccato, ma è anche vero che non c’era e non c’è nella zona una grande propensione per questa attività, e lo dimostrano i numerosi motivi , anche da ballo, che una volta entrati nella pedemontana sono andati incontro a un progressivo rallentamento con perdita del ritmo e allungamento delle note; La vera passione della zona è l’armonia e la coralità: fare un bel accordo e goderselo fino in fondo.
Ciò non ha impedito che talvolta si ballasse, nelle nozze, nelle osterie, nei filò e soprattutto durante il carnevale quando vestiti in maschera si girava per le case cantando e ballando (Angelina Vardanega originaria di Possagno 1987).
Tra i balli più usati c’erano la così detta tarantella ( la Furlana? ) in cui le copie ballavano un po’ unite un po’ staccate (A. Vardanega 1987); la quadriglia ballata da quattro persone che ora giravano in cerchio ora si mettevano per copie contrapposte in quadrato (Matteo Rover, Possagno 1987 ); poi il ballo della scopa, la polesana e più tardi il valzer, la pulcra (Polca) e la mazurca (Ermenegildo Cavarzan, Possagno 1987 ).

Gli strumenti musicali possono essere divisi in due grandi categorie: i professionali, durevoli, e gli effimeri, occasionali.
Tra i primi va ricordata la baga veneta che però è caduta in disuso da lungo tempo senza lasciare tracce, se non nei modi di dire. Era composta da un sacco di pelle munito di un bocchino e due pive, una di canto e una di bordone.
La baga è stata soppiantata alla fine del secolo scorso dall’organetto diatonico, più precisamente dalle semitonate, delle quali conserviamo ancora alcuni esemplari di inizio secolo. (2)
Per il basso si usava il “violon” che era o un contrabbasso 3\4 o un violoncello.
Una buona fortuna hanno avuto anche il mandolino e il violino, strumenti che qualche buon falegname riusciva a costruirsi in casa (3); più rara la chitarra, mentre l’uso di strumenti bandistici per accompagnare il canto non è documentato.
Per le percussioni era usto il ” thimpano ” ( cembalo ) di tipo veneziano di grandi dimensioni e con pochi sonagli incastrati nella cassa. ( Matteo Rover, Possagno 1987 )
Tra gli strumenti occasionali o effimeri ricordiamo anzitutto le pive, una specie di flauto dolce costruito con la corteccia di castagno o “girlandera” (maggiociondolo) e munito di fori o più spesso di stantuffo per variare il suono.
Da queste si poteva ottenere anche la baga legando ad un otre di pelle di capra conciata con calce viva un bocchino e due pive, una di bordone e una di canto. ( E. Cavarzan, Possagno 1987 )
Tenendo teso davanti alla bocca il bordo di una foglia di edera si otteneva un suono simile a quello di uno strumento ad ancia con una buona estensione e sonorità. (M.Rover, Possagno 1987 )
Ancora più originali erano altri due strumenti da accompagnamento: il primo si otteneva infilando per il manico tre cucchiai dentro il collo di una bottiglia che poi veniva percossa e il secondo sfregando a mo’ di archetto di violino il “palo di ferro” contro il bordo di un tino, naturalmente quando era vuoto; Ne usciva un suono cupo e profondo che si udiva anche a distanza. (E. Cavarzan, Possagno 1987 ) Anche il pettine “pèten” coperto da carta velina e “el pés” oggetto a forma di pesce, cavo e con un foro otturato da carta velina, fornivano l’effetto sonoro dei moderni cazoom. Simile a un’ocarina a forma di uccello è poi il “cuc” detto così perché emette due sole note come il cuculo.

Il canto è generalmente corale, anche se talvolta viene intonato da un solista al quale via via si aggiungono le altre voci. Le opportunità di cantare certo non mancavano né l’esecuzione era stereotipata, ma vivace e mutevole a seconda delle occasioni. Si cantava durante e dopo il lavoro in montagna e nei boschi (da Fietta sentivano quelli di Possagno che cantavano mentre raccoglievano le castagne), durante la vendemmia poi era d’obbligo cantare per non mangiare l’uva. Anche nelle fornaci si cantava e non solo per passatempo, ma per creare un coordinamento di squadra e rendere il lavoro più sopportabile. Si cantava anche nei teatri paesani che diventavano delle vere operette e contribuivano così alla diffusione del canto.

Nei filò, nelle osterie, nelle ore tarde, dopo una nozze o una “sagra”, allora si scatenano gli istinti canori più autentici e disinibiti, allora non si bada più alle restrizioni morali imposte dalla chiesa o dalle convenienze sociali, allora esplode il vero canto popolare in tutta la sua genuinità e tra un coro epico e solenne e uno scatenato e sguaiato fino allo scanzonato o al disdicevole si manifesta tutta la forza liberatoria di questo rito popolare che proprio per questa libertà è stato etichettato in senso negativo come “Volgare”, ma in questo spirito non ci vergognamo certo di essere “Volgari” anche noi.